21 gennaio 2016

Tornare al lavoro?

Mi era sembrata pure una bella idea: l’annuncio delineava il lavoro che avrei sempre voluto fare, organizzazione prestigiosa, volendo part time, la location vista parco, vicino ai palazzi del potere, sulla linea giusta di metro, insomma, avevo deciso che ci sarei andata. 
Sì, ci sarei andata all’ “office open day” organizzato perchè i mortali che pensavano forse di fare domanda di lavoro potessero incontrare i fighissimi che già lavoravano lì, fare domande e capire se era il posto giusto per loro e viceversa. Ci sarei andata, così, per avere un’idea di com’era, e anche, diciamo la verità, per avere un paio d’ore tutte per me.

Sentivo da un po’ che forse era arrivato il momento di provarci. Ricominciare a lavorare.

Cinque anni da quando avevo lasciato il mio ultimo lavoro. Nel frattempo due figlie, 4 traslochi di qua e di là dell’oceano, un numero imprecisato di scatoloni fatti e disfatti, città scoperte o riscoperte, cibi diversi, amici persi, amici ritrovati, playgroup, babysitter, asili o simili. Ma soprattutto 5 anni immersa, per necessità e virtù, nel mondo dei bambini e della gestione della casa. Latte, pannolini, passeggini, sonno, mancanza di sonno, e ora amichette, liti, scuole etc...e aggiungeteci lavatrici, pranzi, cene, spese e chi più ne ha più ne metta.

Ecco, mi era sembrata una buona idea, e per fortuna mi ero pure vestita bene, perchè appena affacciata a quella sala avevo capito che no, non era stata affatto una buona idea. 
Attorno ad un ricco buffet, si erano formati capannelli di tre o quattro persone che chiacchieravano animatamente. In ogni gruppetto c’era un ricercatore dell’istituto e tre giovani donne o uomini, vestiti elegantissimi, tutti presi a dar mostra della loro competenza e interesse attraverso domande all’apparenza spontanee, ma in realtà preparate accuratamente. 
Uniche possibilità per me: la fuga, o il transformarmi in un camaleonte. Nessuna delle due fattibile, ahimè.

Mi unisco con nonchalance ad un gruppetto, ascolto e annuisco, noto il pancione della dipendente e mi viene voglissima di domandarle a che mese è, cosa pensa di fare dopo la nascita, se sa come la sua vita cambierà e se può immaginare adesso che poi forse si ritroverà in una sala piena di persone che parlano di governo e ricerca e a lei non verrà in mente niente di super intelligente da dire e non perchè non abbia niente di intelligente da dire in generale, ma perchè la testa è stata un po’ troppo tempo altrove e poi ci vuole allenamento per rientrare in pista.

Sorrido.


Penso anche che probabilmente non sa che sta per fare una delle esperienze più totalizzanti della sua vita, che scoprirà di avere delle risorse che non pensava di avere, che diventerà capace di fare ancora di più e che avrà un giorno anche il coraggio di presentarsi ad un “open office day” per un lavoro fighissimo completamente impreparata  e se anche non lo prenderà quel lavoro, riconoscerà in sè un coraggio nuovo.

3 commenti:

  1. Dev'essere una cosa di famiglia. Ricordo tale Aurelio Vecchini raccontarmi, poche settimane fa, come nella sua breve esperienza ad Harvard fu preso per un luminare. Quel suo ostinato tacere davanti alle platee ansiose; le pause affettate tra una parola e l'altra; le frasi mozzate, quasi a soppesarne le conseguenze: dietro a quei silenzi, pensavano gli studenti, si celava la gravitas del genio.

    In realtà, mi confidò il perfido Vecchini, all'epoca aveva un B1 scarso in inglese e faceva fatica a mettere assieme una frase di senso compiuto.

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    1. non oserei mai, nemmeno nelle mie performances migliori, paragonarmi a Vecchini (che se non sbaglio di primo nome faceva Adelio). A lui l'oscar a me coniglio d'oro del festival del cinema di Gardolo.

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  2. bentornata Francesca!
    valeriscrive

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